Born To Be…. Academy! – Intervista ad Alessandro Mandelli (Coordinatore Infermieristico RFL LIMBIATE)
Alessandro, ti va di partire raccontandoci il tuo percorso professionale?
Certamente, ho cominciato negli anni ’90 quando ancora la scuola era considerata professionale, appena diplomato nel ’95 ho lavorato presso il San Gerardo dei Tintori di Monza nella squadra volante.
Durante la leva ho vinto il concorso presso Il San Gerardo e al congedo ho preso servizio presso l’unità di Neurochirurgia con semi intensiva annessa. Dopo circa 4 anni mi sono spostato alla Multimedica dapprima in una Unità polispecialistica chirurgica e a seguire in solvenza.
Dimessomi dalla Multimedica ho operato come libero professionista per conseguire il Diploma di Maturità da privatista come Dirigente di comunità.
Sono passato quindi a Coordinare l’Unità di Ortopedia e Riabilitazione della clinica Zucchi di Monza per circa 4 anni. Ho quindi preso servizio come infermiere di Direzione Sanitaria presso la Multimedica di Sesto San Giovanni per circa 1 anno.
Ripresa la libera professione ho prestato servizio presso la farmacia della Clinica Zucchi di Monza e contemporaneamente presso l’Unità di Cure Palliative Domiciliari della stessa azienda operando sul territorio di Monza e Brianza per circa 2 anni.
Ho proseguito con la startup del servizio di Cronicità di regione Lombardia per circa 1 anno e a seguire ho intrapreso il Coordinamento della Riabilitazione e delle Cure Sub Acuti della Clinica Zucchi di Carate.
Durante il 2020-2021 ho coordinato l’unità Covid della Clinica Zucchi nei diversi periodi di Chiusura e ho preso parte come vaccinatore al programma vaccinale di regione sia all’interno della struttura che sul territorio di Monza Brianza.
Alla chiusura dell’unità che coordinavo ho risposto all’invito di RFL di collaborare ad una nuova formula di riabilitazione psichiatrica presso la comunità di Limbiate, dove tutt’ora presto servizio come Coordinatore Infermieristico.
Senti che il ruolo dell’Infermiere sia stato valorizzato nei contesti sanitari negli ultimi anni?
Dipende dal punto di vista, sicuramente la trasformazione da corso professionale a titolo di laurea ha creato una spinta nella direzione della valorizzazione, che però purtroppo non è stata seguita da un riscontro pratico a livello operativo.
Similmente alla professione medica ci siamo avvicinati alle specializzazioni migliorando l’outcome delle prestazioni tecniche riducendo però progressivamente la capacità di occuparsi dei bisogni assistenziali delle persone.
Sarebbe scontato discutere sul valore economico dell’attività professionale infermieristica che non ha seguito la crescita accademica verso le università.
Inoltre, nel risvolto sociale la figura dell’infermiere non ha acquisito maggiore considerazione, rimanendo contemporaneamente una professione che richiede dedizione e sacrificio da parte degli operatori.
Occuparsi delle persone, dei loro bisogni di salute e non, in contesti ad alta intensità sia fisica che mentale, con turni spesso infiniti che non tengono conto né di festività ne di riposo, ha nel tempo depauperato le risorse disponibili, soprattutto in termini di desiderabilità o attrattività verso i giovani.
Tante volte se pensiamo all’infermiere ci immaginiamo questa figura in contesti ospedalieri, ma come sappiamo, non sono i soli luoghi dove questo può operare. In quali nuovi contesti lavorativi può operare un infermiere?
L’infermiere in senso lato si prodiga verso i bisogni della persona. Erroneamente lo si pensa in termini di sostituzione alla persona non in grado di soddisfare tali bisogni.
Nella sua attività è invece intrinseco il recupero funzionale, che passa attraverso la stimolazione, l’educazione e l’insegnamento pratico alla persona.
La prossima frontiera della professione è sicuramente il territorio, inteso come contesto in cui le persone vivono.
La concezione ospedalocentrica ha mostrato le proprie lacune e difficoltà negli ultimi anni, emergenza covid compresa.
Il riempirsi quotidiano dei nostri pronto soccorso dimostra quanto il bisogno di salute venga sempre più delegato ai servizi d’emergenza, influendo negativamente sulla capacità di risposta verso quelle che sono invece le vere emergenze.
L’infermiere può e deve inserirsi in questo contesto in qualità di infermiere di famiglia con gli stessi intenti descritti in precedenza, gestione dei bisogni di salute, educazione e quando serve assistenza diretta alla persona.
Come mai hai deciso di cambiare ambiente e lavorare in una comunità terapeutica per ragazzi?
Non avendo avuto precedenti esperienze di comunità quello che mi ha affascinato è stato il poter lavorare con i ragazzi.
Spesso si investono risorse quando la cronicità ha preso il sopravvento non seguendo il principio per cui la prevenzione anche se non risolve mitiga gli effetti a lungo a termine.
Trovo stimolante poter contribuire alla riabilitazione di queste persone, che spesso hanno risorse mai considerate da un’opinione germanizzata di stigma verso la salute mentale.
Inoltre, la difficoltà educativa delle nuove generazioni ha un impatto sociale significativo e sta riguardando tutti gli strati sociali, non più solo di quei contesti svantaggiati economicamente.
Quanto è valorizzata la figura dell’infermiere all’interno delle strutture di RFL? Perché è un valore aggiunto all’interno dell’équipe?
Il valore del professionista in RFL è in mano al professionista stesso.
La misura del suo contributo è palpabile nei percorsi dei nostri ospiti, indipendentemente che esso sia Infermiere Educatore o altro. All’interno dell’equipe vi è margine di interagire, proporre e discutere, ma non rimangono solo parole.
Si interagisce con i nostri ospiti in modo da essere percepiti come Adulti, consapevoli ed equilibrati che si stanno occupando di loro e dei loro bisogni.
Spesso abituati a lavorare in contesti in cui l’attività e il rapporto con il paziente è parcellizzato in compiti, non è facile vestire questo ruolo, ma quando ci si riesce permette un’interazione più ampia con la persona che ben si sposa con l’educazione alla salute e al benessere.
Il contributo infermieristico non deve limitarsi alla distribuzione di farmaci ma ad esempio espandersi all’educazione sul buon uso del farmaco.
Non può e non deve essere la semplice medicazione di una ferita auto inflitta, ma il tentativo di innescare e rendere reali condotte più salubri perché la stessa non si verifichi. La competenza specifica si espleta nel contesto di vita, dall’igiene personale all’uso/abuso di sostanze e così via.
Quali competenze bisogna formare per integrarsi con il lavoro d’équipe?
Innanzi tutto, è necessaria consapevolezza. La capacità di mantenere alta l’attenzione e di favore l’intervento di altri professionisti nasce da una comprensione del contesto.
L’integrazione delle diverse figure non deve essere vissuta come un incastro di processi dedicati a questo o a quel professionista, ma come un susseguirsi fluido di attività, interventi, atti e parole.
Diventa indispensabile uscire dallo schema del rapporto uno a uno col paziente per riuscire a dedicare i giusti tempi e attenzioni all’intera platea di ospiti presenti in struttura. A seguire è importante uscire dagli schemi dei “compitini” che scandiscono la giornata tipica di una unità ospedaliera.
Nella realtà quotidiana il programma dei processi organizzati è necessario come metodo educativo verso i nostri ospiti, ma deve anche favorire la capacità di adattamento alle situazioni, al rendere possibili le cose anche quando le condizioni non sono ottimali.
Infine, la gestione dei preconcetti e delle paure. Quello che facciamo va nella direzione di creare i presupposti per affrontare i momenti di fatica, non di evitarli nascondendone l’esistenza.
Consiglieresti la strada della comunità di NPI/GAD ad un giovane infermiere?
Difficile da dire, quello che sicuramente consiglierei è di farci un’esperienza poiché non tutti siamo versati nelle stesse attività. Questo contesto è una sorta di palestra che ti insegna a ridisegnare le zone di confort dell’attività assistenziale, a modificare le barriere normalmente presenti tra professionista della salute e paziente.