Il disagio adolescenziale: quando il corpo parla

Alle 7:30 del mattino, davanti allo specchio del bagno, Margherita conta i difetti. Ha 13 anni, è alta 1 metro e 65 per 56 chili: un indice di massa corporea perfettamente nella norma. Ma i numeri delle tabelle mediche non bastano a calmare il disagio che Margherita prova quando si confronta con i corpi levigati che scorrono sul suo smartphone. Il corpo dell’adolescente non viene più solo vissuto: è osservato, giudicato, messo a confronto. E così il corpo diventa il principale veicolo attraverso cui si esprimono il disagio adolescenziale e la difficoltà di elaborare le emozioni.

Il corpo passa dall’essere un’entità biologica ad assumere una funzione comunicativa, relazionale e simbolica”, spiegano i professionisti che quotidianamente si confrontano con il disagio adolescenziale. È una trasformazione che va oltre i cambiamenti fisici della pubertà: è l’emergere di un nuovo codice comunicativo, spesso incompreso dagli adulti.

L’immagine riflessa nei social

Crescendo con il cellulare in mano e guardando costantemente i social media, gli adolescenti si confrontano con un pubblico sterminato. Le immagini digitali, spesso ritoccate o idealizzate, diventano uno specchio deformante. La ricerca di perfezione si scontra con la realtà del corpo che cambia, e il senso di inadeguatezza cresce.

Come Margherita, migliaia di adolescenti vivono questa tensione ogni giorno. Cercano di controllare un corpo che sembra sfuggire, che non obbedisce alle aspettative, che non somiglia a quello che “dovrebbe essere”. Il controllo del peso, l’ossessione per l’aspetto fisico, il rifiuto della propria immagine non sono solo fasi passeggere. Sono forme di comunicazione, messaggi che chiedono di essere ascoltati.

Quando il dolore prende forma

La forma più drammatica di questo linguaggio corporeo è l’autolesionismo. Tagli, bruciature, morsi: gesti che agli occhi degli adulti appaiono inspiegabili, ma che seguono una logica interna precisa. La pelle diventa il confine tra un mondo interno caotico e un mondo esterno in cui non si trova spazio.

L’autolesionismo non suicidario è un tentativo di regolare le emozioni ingestibili. È un modo per trasformare il dolore psichico in qualcosa di evidente e tangibile, qualcosa che si può vedere e forse controllare. Carlo, 18 anni, traduce così il suo dolore emotivo in segni fisici: non è autodistruzione, ma un modo per sentire di avere controllo almeno su qualcosa, quando tutto il resto sembra sfuggire.

Il corpo come laboratorio identitario

Nel tumulto adolescenziale, anche sessualità e identità di genere si intrecciano con il corpo, trasformandolo in un vero e proprio laboratorio di sperimentazione identitaria.

Pietro, 15 anni, silenzioso e al secondo insuccesso scolastico, si ritira in camera e interagisce online impersonando Perla: un corpo virtuale dove esplorare un’identità che nel mondo reale fatica a trovare accoglienza. Greta, 13 anni, si dichiara bisessuale, mentre la sua migliore amica si definisce pansessuale. Parlano di identità fluide con la naturalezza di chi è cresciuto in un mondo dove le categorie tradizionali si sono fluidificate.

Spesso, il corpo e le sue possibilità espressive servono a mettere in scena bisogni più profondi: attenzione, riconoscimento, contenimento. È essenziale distinguere tra disforia di genere – una sofferenza legata alla discrepanza tra sesso biologico e genere percepito – e le molteplici forme di espressione che nascondono altro.

Anche il rifiuto della sessualità può essere significativo. Fabrizio, 11 anni, si identifica come aroace (aromantico e asessuale): non vuole rapporti romantici e sessuali. Il suo corpo rifiuta una sessualizzazione precoce che può rappresentare, più che una richiesta di relazione adulta, una richiesta di attenzione che nasconde un bisogno profondo di contenimento e protezione.

L’ascolto come cura del disagio adolescenziale

Come possono gli adulti decifrare questo linguaggio corporeo? La risposta non sta nella censura o nel controllo, ma nell’ascolto attivo e nella legittimazione dell’esperienza adolescenziale. Il primo passo è riconoscere che quello che il giovane sta provando è legittimo e vero, anche quando non lo comprendiamo.

La scuola, in particolare, ha un ruolo cruciale in questo processo. Marco Tibaldi, insegnante con 25 anni di esperienza, osserva che “il lavoro dell’insegnante è composto per il 20% da contenuti e per l’80% da relazione”. Questa relazione passa inevitabilmente attraverso il corpo: l’irrequietezza, la chiusura, l’aggressività non sono solo “problemi di comportamento” ma modalità di comunicazione che richiedono decodifica, non repressione.

È necessario per gli adulti un cambio di prospettiva. Devono imparare a tollerare l’incertezza che gli adolescenti portano, ad accogliere ciò che non capiscono e a sospendere il giudizio. Significa anche fare i conti con i propri stereotipi riguardo a genere, sessualità e ruoli, per evitare di proiettare le proprie paure sui giovani.

Verso un nuovo ascolto

L’adolescente ha un profondo bisogno di un adulto presente che lo riconosca, lo accolga, lo accompagni e lo sostenga nel suo percorso di crescita. Questo non significa proteggerlo dai rischi, ma aiutarlo a navigarli con consapevolezza, offrendo una base sicura a cui tornare.

Il corpo adolescenziale che si ferisce, si nasconde, si trasforma, si espone non è un nemico ma un alleato da ascoltare. È una voce che racconta una storia complessa, fatta di paure, desideri e bisogni. Gli adulti di riferimento hanno il compito di imparare questo linguaggio, creando spazi di accoglienza dove il disagio possa trasformarsi in crescita.

Questo articolo è stato tratto dagli interventi al seminario Recovery for Life “L’identità nell’adolescenza: percorsi tra corpo, mente e società”, visibile su YouTube.

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