Quando il profilo falso è quello vero: adolescenti tra maschere digitali e bisogno di autenticità

Non è l’account che mostrano ai professori, ai parenti o ai compagni di scuola. Quello resta impeccabile: foto ritoccate, frasi studiate, ironia calibrata. La parte socialmente presentabile di sé. Ma dietro quell’immagine perfetta, sempre più adolescenti si creano un rifugio digitale: un Finstagram (o Finsta), un secondo profilo Instagram invisibile ai più, riservato solo a pochissimi amici fidati. Lì compaiono foto sfocate, meme senza senso, pensieri scritti di getto. Paradossalmente, questo account falso è il più vero. Mentre il profilo principale brilla di perfezione studiata, sul Finstagram regna l’imprevisto. Lì si può essere goffi, tristi, sbagliati, persino noiosi. In altre parole: umani. Scopri di più su Finstagram, la realtà parallela di Instagram.

Ma perché i ragazzi sentono il bisogno di creare un luogo nascosto per essere sé stessi? E cosa ci dice questo su ciò che non riescono a mostrare altrove?

Il Sé confezionato

Negli ultimi dieci anni la salute mentale degli adolescenti ha iniziato a mostrare segnali di crescente fragilità. Per comprendere davvero cosa sta accadendo, dobbiamo guardare a come è cambiato il modo in cui i giovani costruiscono la propria identità.

Il tema dell’identità in adolescenza è complesso e sfaccettato. Se vuoi saperne di più, noi di RFL abbiamo già scritto un approfondimento riguardo: Scopri di più qui.

L’era dei social media ha portato con sé qualcosa di nuovo: l’aspettativa sociale di coerenza. Se una volta Internet permetteva l’anonimato e la sperimentazione di identità multiple, oggi i social network richiedono che tu sia riconoscibile e coerente. Questa pressione crea quello che gli psicologi chiamano il “Sé confezionato”: un’immagine di sé costruita come un prodotto da mostrare, che deve seguire le convenzioni sociali e raccogliere approvazione. In pratica, è come se ogni ragazzo dovesse diventare il proprio brand personale, con tutto ciò che ne consegue in termini di stress e controllo costante.

Il problema? L’adolescenza è per sua natura il tempo della sperimentazione. È il momento in cui si deve necessariamente provare diversi modi di essere per distaccarsi dal modello parentale e costruire la propria identità. Ma come si fa a sperimentare quando ogni passo lascia una traccia digitale permanente? E come si può sbagliare, se ogni gesto viene subito visto e commentato dagli altri?

Come mostrato in questo interessante articolo su Psicoanalisi e Sociale di Federico Tonioni, la distinzione tra vita online e vita offline si fa sempre più sfumata: le dipendenze digitali trasformano gli spazi virtuali in luoghi reali di esperienza emotiva.

Il prezzo dell’immagine perfetta

La psicologia ci insegna che dentro ognuno di noi convivono due dimensioni del Sé: il Sé reale (ciò che pensiamo di essere) e il Sé ideale (ciò che desidereremmo essere). Facciamo un esempio: posso vedermi come una persona timida che fatica a parlare in pubblico (Sé reale), mentre vorrei essere qualcuno di disinvolto e sicuro (Sé ideale). Una certa distanza tra queste due immagini è normale, persino motivante. Ma quando la discrepanza diventa troppo grande, quando sento che non sarò mai la persona che vorrei essere, questa frattura diventa un fattore predittivo di problematiche di salute mentale come le dipendenze, i disturbi alimentari o l’autolesionismo.

I social media, con la loro natura visuale e il loro sistema di feedback quantificabile, amplificano questa discrepanza. Prendiamo il caso più evidente, quello del corpo: solo una piccolissima parte della popolazione mondiale rientra nel corpo ideale promosso dai social media. Eppure, questo modello irraggiungibile viene presentato quotidianamente come desiderabile e meritevole di approvazione.

Crescendo con il cellulare in mano e guardando costantemente i social media, gli adolescenti si confrontano con un pubblico sterminato. Le immagini digitali, spesso ritoccate o idealizzate, diventano uno specchio deformante. La ricerca di perfezione si scontra con la realtà del corpo che cambia, e il senso di inadeguatezza cresce.

I social media hanno sdoganato il dire alle altre persone cosa pensiamo di loro, che sia con un like o con un commento. Questo meccanismo di approvazione continua diventa un terreno fertile per l’insoddisfazione verso la propria immagine corporea. Inoltre, il confronto sociale non è più occasionale, ma costante, e l’approvazione degli altri non è più implicita, ma misurata in like. E ogni like in meno può sembrare una conferma di non essere abbastanza.

I bisogni nascosti dietro lo schermo

Il bisogno di apparire perfetti non cancella il desiderio di essere visti per ciò che si è, anzi lo intensifica. Quando manca uno spazio in cui potersi mostrare senza filtri e senza paura del giudizio, il bisogno di autenticità si trasforma in ricerca di intimità emotiva altrove. Ed è proprio in questa zona d’ombra, dove non ci si sente riconosciuti né ascoltati, che si apre la porta a un rischio meno evidente ma insidioso: il grooming, termine inglese che indica l’adescamento online da parte di predatori sessuali.

Il predatore sessuale online non appare come una minaccia evidente. Non è lo “sconosciuto pericoloso” di cui parlano i genitori. Al contrario, sviluppa gradualmente un rapporto intimo con il giovane, risponde a bisogni reali di ascolto e comprensione, si mostra interessato, empatico, presente. L’approccio tradizionale alla prevenzione – dire ai bambini di parlare con un adulto se vedono qualcosa di “strano” – fallisce proprio perché il rapporto di adescamento non viene percepito come strano, ma come l’unico in cui qualcuno finalmente ascolta davvero.

Educare all’essere, non all’apparire

Se il Finstagram ci insegna qualcosa, è che i ragazzi non hanno smesso di cercare luoghi dove essere sé stessi. Li hanno solo spostati e resi accessibili a pochi. Ma questa soluzione è per sua natura fragile: crea isole di autenticità in un mare di performance continua.

La vera domanda allora diventa: come possiamo creare contesti dove mostrarsi per come si è e dove la sperimentazione identitaria non lasci tracce indelebili? Dove sbagliare non significhi essere giudicati pubblicamente?

Forse la risposta sta nel ripensare non solo il modo in cui i giovani usano i social media, ma anche il modo in cui noi adulti li accompagniamo in questo processo. Significa superare l’approccio semplicistico del “non fidarti degli sconosciuti online” e costruire invece una vera educazione al digitale: cosa condividere, con chi, perché. Significa anche creare ambienti educativi e clinici dove il desiderio di essere ascoltati possa essere soddisfatto.

Oltre il Finstagram

In un’epoca in cui l’account falso è quello vero, forse il vero atto di ribellione non è creare profili nascosti, ma pretendere luoghi dove possiamo finalmente smettere di recitare. Dove il disagio può essere nominato senza vergogna. Dove la vulnerabilità non è qualcosa da nascondere, ma il punto di partenza per costruire un’identità solida.

Gli adolescenti ce lo stanno già dicendo, a modo loro, con i loro Finstagram: essere sé stessi non è un optional. È un bisogno psicologico fondamentale. E quando non trovano dove esprimersi liberamente, si inventano soluzioni – anche se solo per pochi follower fidati, in un angolo nascosto di Instagram.

La domanda è: noi adulti siamo pronti ad ascoltare?

Se il disagio digitale si trasforma in sofferenza reale (isolamento, disturbi alimentari, autolesionismo, ansia persistente) è importante sapere che esistono percorsi specializzati.

PoTRAI è un servizio clinico-riabilitativo dedicato ad adolescenti e giovani adulti, che offre supporto psicologico e psichiatrico attraverso équipe multidisciplinari. I percorsi sono personalizzati e accessibili in diverse modalità: online, in studio o a domicilio. Noi crediamo in quello che potrai diventare

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